PARTITE IVA “DORMIENTI”: LE COMUNICAZIONI PAZZE DEL FISCO

agenzia delle entrate



Migliaia sono le lettere dell’Agenzia delle entrate che in questi giorni giungono al domicilio di altrettanti contribuenti che, loro malgrado, scoprono di essere ancora titolari di una partita Iva per attività cessate, magari, da svariati decenni. 
Il documento recapitato, qualificato come “comunicazione”, rende noto al contribuente che l’Agenzia procederà alla chiusura d’ufficio della partita Iva indicata nella medesima lettera, attribuendo un termine di 30 giorni per la regolarizzazione della violazione di omessa comunicazione della chiusura dell’attività. 

Le disposizioni normative. Ai sensi dell’art. 35, comma 3 del DPR n. 633/1972, il contribuente titolare di partita Iva, in caso di cessazione dell’attività, deve darne comunicazione all’Agenzia delle entrate, entro trenta giorni, compilando un apposito modulo. 

A norma del successivo comma 15-quinquies (inserito dal DL 98/2011 e poi modificato dal DL 16/2012), l’Agenzia delle entrate, sulla base dei dati e degli elementi in possesso dell’anagrafe tributaria, individua i soggetti titolari di partita IVA che, pur obbligati, non abbiano presentato la predetta dichiarazione di cessazione di attività; successivamente, l’ufficio comunica a tali soggetti che provvederà alla cessazione d’ufficio della partita IVA. 
Ricevuta tale comunicazione il contribuente, che rilevi eventuali elementi non considerati o valutati erroneamente dall’ufficio, può fornire i chiarimenti necessari entro i trenta giorni successivi. 

La sanzione. L’omessa presentazione della comunicazione di cessazione dell’attività, nel termine di 30 giorni dal suo verificarsi, è punita, ai sensi dell’art. 5, comma 6 del D.Lgs n. 471/1997, con una sanzione amministrativa da euro 500 a euro 2.000 . 

Il citato comma 15-quinquies dell’art. 35 prevede che la somma dovuta a titolo di sanzione per l’omessa presentazione della dichiarazione di cessazione di attività, in deroga all’art. 16 del D.Lgs n. 472/1997 (ai sensi del quale la sanzione amministrativa tributaria deve essere irrogata mediante atto di contestazione), è iscritta direttamente a ruolo a titolo definitivo. 
Tuttavia, il contribuente può evitare l’iscrizione a ruolo, versando, entro trenta giorni dal ricevimento della predetta comunicazione, una somma pari a un terzo del minimo edittale sanzionatorio (ossia €. 167,67 ). 

Le comunicazioni dell’Agenzia. Ai sensi della normativa testè citata, l’Agenzia delle entrate può legittimamente contestare la mancata comunicazione di chiusura della partita IVA da parte del contribuente qualora la stessa risulti ancora attiva al sistema informativo dell’Anagrafe tributaria, ma non sia di fatto utilizzata (nel senso che il contribuente da anni non effettua operazioni attive e/o passive e non presenta la dichiarazione annuale Iva); contestualmente l’Ufficio può disporre la chiusura d’ufficio della medesima partita Iva. 

In concreto, al contribuente viene recapitata una comunicazione (a mezzo raccomandata), formalizzata dalla Direzione Centrale Tecnologie e Innovazione dell’Agenzia delle entrate, nella quale vengono riepilogate le informazioni risultanti sulla partita Iva ancora aperta a sistema, con gli avvisi previsti dalla citata normativa, ivi compresa la possibilità di rivolgersi al Call center (nr. 848.800.4449 per fornire chiarimenti o ricevere informazioni. 
Peraltro, le comunicazioni recapitate in questi giorni a molti contribuenti, poi pervenute sulle scrivanie dei loro consulenti, dimostrano un clamoroso difetto di aggiornamento della citata Direzione Centrale; vengono infatti riportate misure sanzionatorie non più in vigore dal 1° gennaio 2016, per effetto delle modifiche apportate dal D.Lgs n. 158/2015. 
Si legge, in particolare, negli avvisi che il contribuente può regolarizzare la sua posizione versando la somma di 172 euro entro 30 giorni (in luogo del corretto importo di €. 167,67) dalla data della comunicazione e che se lo stesso non provvederà a tale versamento, l’Agenzia applicherà la sanzione intera di euro 516 (in luogo del corretto importo di €. 500) affidandone l’incasso all’Agente della riscossione. 
Trattasi, evidentemente, di comunicazioni non corrette sotto il profilo formale e, come tali, quanto meno da rivedere in autotutela da parte dell’Agenzia delle entrate, mediante correzione degli importi secondo le misure attualmente previste dal citato art. 5, comma 6 del D.Lgs n. 471/1997, misure valide, in virtù del principio del favor rei, anche per la violazioni commesse entro il 31/12/2015, come peraltro evidenziato dalla stessa Agenzia nella circolare n. 4/E del 04/03/2016. 

Il problema della “intempestività” della comunicazione. Il problema che molti contribuenti si trovano ad affrontare nel momento in cui ricevono un avviso di tal sorta, è soprattutto di natura probatoria; spesso, infatti, si tratta di attività cessate da decenni, attività in relazione alle quali i contribuenti stessi non possiedono più alcun documento (non essendone, peraltro, obbligati nemmeno sotto il profilo civilistico). 

Ovviamente sarebbe tutto più semplice se l’Agenzia procedesse ai controlli automatizzati sulle partite Iva in tempi ragionevoli e non a distanza di decenni, come peraltro segnalato dal Direttore di Fiscal Focus, Antonio Gigliotti, nell’intervista rilasciata ieri a “Mi manda Rai Tre”. 
Ma i casi più paradossali, emersi anche nel corso della predetta trasmissione, sono i seguenti: 
– il contribuente non è mai stato titolare di partita Iva; 
– il contribuente ha effettivamente presentato la comunicazione di cessazione dell’attività in tempi remoti, in formato cartaceo (non esisteva ancora il canale telematico), ad esempio presso l’Ufficio distrettuale delle II.DD. allora esistente, o ad altro ufficio finanziario, ma tali dati per qualche motivo non sono stati inseriti poi a sistema e, considerato il tempo trascorso, la documentazione probatoria non è più disponibile; 
– il contribuente ha effettivamente cessato l’attività decenni or sono, non ha presentato entro 30 giorni la comunicazione di cessazione richiesta dalla norma e quindi ha commesso una violazione che, tuttavia, non potrebbe essere più perseguita sotto il profilo amministrativo, per intervenuta decadenza ex art. 20 del D.Lgs n. 472/1997. 

Il legittimo affidamento. Al di là della legittimità degli avvisi inviati masse di contribuenti che, evidentemente, risultano ancora titolari di partite Iva da molto tempo inutilizzate, il comportamento dell’Agenzia delle entrate, oltre che evidentemente inopportuno, appare censurabile quanto meno sotto il profilo della lesione di alcuni principi sanciti dallo Statuto del contribuente, quali: 

– il legittimo affidamento di cui all’art. 10, comma 1 della Legge n. 212/2000, per cui i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria dovrebbero conformarsi al principio della collaborazione e della buona fede e tale non appare la pretesa di dover provare fatti capitati, in molti casi, molti anni prima; 
– la tempestiva informazione, di cui all’art. 6, co. 2 della stessa legge, per cui l’amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare (…) l’irrogazione di una sanzione. 

Misure difensive. E’ evidente come spesso i contribuenti, raggiunti da comunicazioni ex art. 35, comma 15-quinquies per attività chiuse anni or sono, possano non essere più in grado di provare la data certa della chiusura della partita Iva o dell’attività; pur tuttavia, si forniscono i seguenti spunti che potrebbero essere considerati decisivi dall’ufficio, al fine di escludere la responsabilità per la violazione dell’art. 35, terzo comma del DPR n. 633/1972, perché non commessa, ovvero in quanto decaduta sotto il profilo accertativo. 

Trattasi evidentemente di elementi indiziari, da rapportare al caso concreto, che tuttavia, se caratterizzati da precisione e concordanza, possono assurgere ad dignità probatoria; sotto tale profilo, il contribuente potrebbe, ad esempio dimostrare: 
– lo svolgimento da anni attività di lavoro dipendente a tempo pieno, intrapresa dopo aver cessato quella di lavoro autonomo o d’impresa (incompatibile, ad esempio, con la posizione di pubblico dipendente); 
– la presentazione della comunicazione di cessazione alla camera di commercio o ad altri enti pubblici; 
– l’impossibilità di svolgere l’attività corrispondente alla partiva Iva per la perdita dei requisiti che ne autorizzavano l’esercizio; 
– la chiusura della sede di esercizio dell’attività; 
– la chiusura delle utenze (gas, acqua, luce, telefono); 
– il perfezionamento della fase liquidatoria (cessione dei beni strumentali, licenziamento del personale dipendente); 
– di aver presentato per uno svariato numero di anni la dichiarazione dei redditi con mod. 730, circostanza questa incompatibile con il possesso di una partiva Iva (ragion per cui l’Agenzia avrebbe potuto e dovuto evidenziare l’irregolarità in modo tempestivo); 
– di aver presentato da anni la dichiarazione dei redditi con mod. Unico, priva del quadro Iva e del quadro Irap, senza che l’ufficio abbia mai evidenziato irregolarità di sorta. 
I predetti elementi possono utilmente essere integrati da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, in cui il contribuente dichiari, sotto la propria responsabilità, anche ai fini penali, la data in cui l’attività riconducibile alla partita Iva dormiente sia stata effettivamente cessata.